Strano destino quello del Soave. Questo vino sembra destinato, speriamo non per sempre, a fare la parte del bianco di quelli che fanno Amarone. Strano destino quello di essere un grande vino bianco in un territorio in cui il rosso è la superstar indiscussa.
Strano destino perché questo bianco da Garganega in purezza è qualcosa di meraviglioso e dà il suo meglio nelle versioni senza legno, solo acciaio: un po’ come le belle donne senza trucco in faccia.
Il Soave nelle sue espressioni belle ha l’eleganza umile dei bianchi d’estrazione popolare, nati per dissetare chi lavora e non per alleggerire l’apatia di chi fa finta. Che poi i vini base sono quelli che hanno salveranno e salveranno sempre l’Italia, come questo Fine 2020, made in Monteforte d’Alpone. Suona meno figo dello Jura, ma fidatevi se la gioca.
Emerge tutta la verità territoriale e umana tipica dei vini che nascono da fermentazione spontanee, da vigneti di conferitori. Canoso è una realtà fiscalmente giovane con più di due secoli di storia di grande agricoltura. C’è quindi un filo conduttore con la storia dell’Italia e forse dell’Europa, in qualche modo.
Da bere come tutti i bianchi senza legno ben fatti che fanno sognare dissetando o dissetano facendo sognare. Da bere perché la il Soave a differenza dell’Amarone è ancora un vino non ancora un content. È un vino che genera vibes dentro il bicchiere e non solo negli algoritmi, piacevolmente agricolo, elegantemente umile. Un vino migliore del mondo in cui viviamo.
Minerale in questo vino non è una cosa da scrivere a caso come di solito. Un vino di equilibrio e finezza, fresco e appagante, che costa troppo poco per essere così buono (come spesso accade per i Soave doc). Io lo bevo sentendo un pezzo che gli somiglia: ritmo, eleganza e tanta freschezza. È Waltz of Odesa Conservatory di Vadim Neselovsky.
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