La “lunga notte” del fine dining, così un intero comparto (spietato) vede il baratro

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Le uniche storie a lieto fine nell’alta ristorazione sono quelle di chi riesce ad uscirne. “Il fine dining non è più sostenibile”, ha detto uno dei suoi maggiori alfieri, Renè Redzepi. Ha ancora senso che ci sia gente che vive una vita ai limiti della sussistenza materiale per permettere a pochi privilegiati bianchi di mezza età di poter mangiare piatti di cui spesso non capiscono nulla e che diventano solo esperienze da esibire nei loro account Instagram?

Si dibatte, finalmente, sulla (in)sostenibilità economica di un’industria che produce non solo miseria umana ma anche economica. È un mondo, quello del fine dining, che sembra avere come presupposto un lusso che pesa sulle spalle di stagisti e apprendisti, ovvero gente che lavora sostanzialmente gratis.

Il fine dining riassume in se stesso tutto ciò che non funziona nel tardo realismo capitalista, che in ultima analisi non tiene mai conto del benessere delle persone e si basa sullo sfruttamento in nome di un’ideologia dell’eccellenza. Un’ideologia tossica come le sostanze che il personale (di cucina e di sala) deve assumere per potere, sempre, essere performante. 

Tra una guida pagata dalla Nestlè, non certo un alfiere del “buono, pulito e giusto”, e una pagata da un’azienda di gomme per automobili, non certo sinonimo di sostenibilità ambientale, ci sono gli esseri umani. Perché, ricordiamolo, anche gli chef (almeno molti di loro) sono esseri umani

C’è chi ne parla scegliendo medium scomodi e un po’ datati come i libri. Ricordiamo ad esempio il lapidario “Dietro le Stelle” dell’unico critico che non scrocca: Visintin. Il nostro, il meraviglioso “Kitchen Confidential” all’italiana: il seminale “Carne Trita” di Lucarelli (Leonardo però). Il problema è che i “food writer” non li leggono e non ne scrivono, impegnati come sono in “press tour” sui grani antichi o sulle varietà di carciofo a rischio di estinzione.

Eppure nel mondo inglese hablante qualcosa si muove. Degne di nota le serie pluripremiate come “The Bear” (o Sweetbitter), passando per gli hollywoodiani “The menu” e “The pig“. Insomma gli chef del fine dining appaiono sempre più spesso come dei folli che oscillano tra narcisismo e depressione, della cui violenta infelicità fanno le spese sempre altri. Spesso più deboli, spesso neri e donne.

Per lavorare in una cucina di fine dining non bisogna attendersi nessuna ricompensa economica. Ci mancherebbe, chi lavora per i soldi è un mercenario. Il compenso è il privilegio di potere essere parte di una squadra favolosa e di imparare dai top per diventare un top. Eppure non mi risulta che nelle squadre giovanili del Barca o del Man City si giochi gratis in nome del privilegio di imparare dai migliori e di giocare in stadi mitologici. 

Dicevo, nelle ultime rappresentazioni cinematografiche dell’alta cucina non ci sono gioia e appagamento, ma solo nevrosi, dipendenze e stanchezza. Non è certo un caso che l’ultima stagione di Chef’s Table di Neflix si sia spostata sulla pizza sfornando, a parere di chi scrive, la sua stagione migliore. 

Cibo che non sazia per gente privilegiata che si annoia: questo è diventato o forse è sempre stato il fine dining, incapace di portare nel piatto emozioni vere per il pubblico ed esistenze appaganti per chi lavora. Forse per tornare ad essere sostenibili, economicamente e umanamente, i ristoranti dovrebbero tornare a fare quello che hanno sempre fatto: nutrire le persone con cose buone, con piatti forse meno instagrammabili ma che saziano. 

L’unica cosa che si ricorda dopo una cena stellata, è il conto che si è pagato. Dopo le cene nelle (buone) trattorie, ci si ricorda cosa si è mangiato. Le trattorie in cui si mangia bene sono e saranno sempre sostenibili per tutti. Forse l’avvenire per gli chef rock star, chiusi i ristoranti insostenibili sarà ritornare a cucinare davvero e forse anche ad avere una vita.

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