Se n’è andato Steven Spurrier. A molti non dirà nulla ed è un peccato, perché per chi come di vino vive e scrive, è stato sempre come un faro, un riferimento una voce vera in questo ambiente in cui la eno-critica è un elenco di descrittori noiosi e geografia approssimativa.
È stato tante cose questo signore inglese, tra le altre un grande gentleman come non ne nascono più, nemmeno oltremanica, educatore, importatore, divulgatore e instancabile curioso degustatore fino alla fine. Ma non è per questo o almeno non solo, che verrà ricordato dalla storia.
La storia l’ha fatta, davvero, nel 1976, nel retro di una piccola enoteca nel centro di Parigi, il 24 maggio per la precisione, (giorno in cui il Piave mormorava diranno alcuni). E mentre in Italia Battisti cantava Ancora tu, Steven invitava le 9 più importanti personalità del food francese, per una degustazione alla cieca, che passerà alla storia quella con la S maiuscola come The Judgement of Paris.
E fino a qui non nulla di strano se non che a fianco dei più importanti Cabernet Sauvignon e Chardonnay di Francia, c’erano con l’etichetta coperta, chardonnay e tagli bordolesi della Napa Valley, che con grande sorpresa di tutti, vinsero la sfida. Era la prima volta che nel mondo veniva messo in discussione il primato mondiale dei vini francesi, considerati fino ad allora i vini più forti del mondo.
Il resto è storia, o meglio storie, al plurale. C’è un libro molto bello che parla di quella giornata, di George Taber, che si legge come un romanzo d’avventura, un film molto bello anche lui Bottle Shock (il titolo italiano è molto meno cool ma ci siamo abituati, “La grande annata”), ed è il tema da cui prende spunto il terzo capitolo della serie Somm, il ciclo di documentari che ha reso cool il mestiere del sommelier agli occhi del mondo.
Insomma se tutti nel mondo, prima negli Stati Uniti e poi ovunque hanno pensato di potere fare grandi vini fuori dalla Francia, beh lo devono in gran parte a quel pomeriggio a Parigi dove gli Chardonnay californiani hanno battuto ai punti quelli dei nostri cugini transalpini.
Se ora ci sono Cabernet non francesi (Sassicaia anyone?) ad essere riconosciuti e pagati come grandi vini, beh è (quasi) tutto merito di questo inglese dal sorriso aperto e dalla idee chiarissime che ci ha insegnato ancora una volta che i vini come le persone del resto si giudicano dalle loro qualità non dal posto in cui nascono.
Addio Steven e grazie di tutto.
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