Calogero Caruana, la remigrazione e il suo ‘Nzolia 2018 “quasi futurista”

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E se il sud non fosse solo un nord venuto male, un nord che non ce l’ha fatta, ma un luogo in cui potere disporre della cosa più rara al mondo: la libertà? Se cominciassimo a pensare che più del “south working“, un’invenzione buona solo per il clickbait (chi se ne ricorderà più tra un paio di mesi?) avremmo bisogno di far tornare la nostra gente a fare grandi cose e non cercare di rendere le nostre città sfondi per le storie Instagram?

Calogero Caruana nasce nell’anno del crollo del Muro di Berlino a Montallegro, non certo uno dei terroir più famosi dell’eno-mondo. Un posto con una grande “vibe” greco-messicana e affacciato sul mare più bello del mondo. Parte come tanti (troppi?) siciliani per studiare Ingegneria a Pisa, ma capisce da subito che quel mondo non fa per lui. Medita addirittura di mollare lo studio, dopo un primo anno, molto avaro di firme sul libretto e di brividi.

Lo scopre per caso accompagnando un amico. Per uno come lui cresciuto in campagna somiglia quasi a un sogno. E per certi aspetti lo è. Agraria gli permette fin da subito di potere seguire tirocini pratici nelle aziende, dalla val d’Aosta alla Sicilia, convenzionali e non. Il vino naturale è stata una scelta, l’esito di un percorso e anche forse della fortuna che lo ha portato, durante la stesura della tesi, ad entrare in contatto con Stefano Amerighi, il principe del Syrah cortonese, uno dei pesi massimi del vino naturale italiano. La tesi di Caruana verteva infatti sulle fermentazioni spontanee, ovvero il processo che distingue il vino naturale da quello che non lo è.

Dal 2013 al 2019 lavora come cantiniere da Amerighi da cui non solo impara a fare il vino, ma anche, cosa non secondaria, ad assaggiarlo e valutarlo. Sono anni di apprendimento, Syrah e nostalgie. La sua storia può ricordare un po’ quella di Fabio Signorelli che ho intervistato su queste pagine (virtuali) poco tempo fa. Vivere in Toscana, una delle “wine regions” più cool del mondo, parlare ogni giorno coi produttori che la maggior parte della gente legge solo sulle riviste specializzate, a Calogero cominciava già a non bastare. Perché d’altronde non puoi stare bene davvero, da nessuna parte se sei nato in Sicilia.

C’erano due ettari di suoli calcarei vergini su cui scrivere una nuova storia vinicola, con vista sul blu del mare di Torre Salsa. Ma come tutti anche Calogero era spaventato all’idea, dato che “vivere in Sicilia non è come venirci in vacanza due volte l’anno”.  Decide di scommettere su una delle zone più difficili della Sicilia e nel 2018 apre la sua azienda agricola. Non si tratta di un’azienda esclusivamente vitivinicola, ma si occupa anche di olive, mandorle e seminativi assieme a meno di un ettaro di vigna. 

Decide di farlo nella consapevolezza di potere mettere in pratica in Sicilia la sua idea di agricoltura, di vino, e di vita. Tra lo scetticismo di molti decide di puntare su una delle varietà siciliane più umiliate e offese: la ‘Nzolia. Un vitigno ridotto, ormai da molti anni, a caricatura di sé stesso, tra tagli e interpretazioni prevaricatrici. Non si può dire che a Calogero piaccia vincere facile dato che, come ci tiene a sottolineare “fare vino naturale è molto più difficile di farlo in modo convenzionale”. “Nel vino convenzionale devi seguire una ricetta – dichiara Calogero – mentre nel vino naturale bisogna avere la sensibilità per interpretare ogni sfumatura che i frutti ogni anno portano con loro, perché puoi solo prevenire e non curare”.

La sua ‘Nzolia è un vino di rara intensità che nasce fuori moda lontano dallo “zeitgeist enoio” in cui vanno di moda i bianchi, freschi, leggeri e ingenui. È un vino di terroir che non finge di essere sulle dolomiti, in continuità coi vini che si sono sempre fatti a queste latitudini. Un vino denso, non da aperitivo ma da pasto. D’altronde qua i contadini aperitivi non ne hanno mai fatti.

La piccola produzione di ‘Nzolia è andata esaurita in pochissimi mesi e quest’anno sarà la volta di un vigneto di Cataratto del 1976 recuperato con un duro lavoro anche per ricordare i vini dei nonni e per riflettere il luogo dove nasce, senza seguire l’effimera “coolness” del momento attuale. Nonostante non sia, sulla carta un territorio facile, Calogero è riuscito anche a fare rete con altri agricoltori della zona: un ragazzo di Ribera che fa agrumi e uno di Montallegro specializzato in seminativi e formaggi di pecora. Si aiutano con le spedizioni dei prodotti, condividono la stessa attitudine produttiva, seppure in campi diversi, e si spera che  altri ne torneranno di giovani negli anni prossimi.

Tornare è possibile, spiega Calogero, alla fine della nostra chiacchierata su zoom, “perché qui c’è spazio per il nuovo, la terra costa poco, e serve solo tanta convinzione, per realizzare in totale libertà, la propria idea di agricoltura e di esistenza”.  Il prossimo step è quello di una totale conversione in biodinamica della sua azienda. La sua ‘Nzolia 2018 è sugli scaffali di tutta Italia, un vino quasi futurista, uno dei pochissimi bianchi italiani, che quando li assaggi per la prima volta, vi sentite strani e più belli come la prima volta che sentite i Coma_Cose o Vasco Brondi.

Forse alla Sicilia e al mondo servono più ettari in biodinamica che start up senza senso con le mission piene di inglesismi. Più agricoltori con un sogno che “content manger” con le sneakers. Ma forse sono solo un boomer.

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