Barocche, noiose e ignorate: le schede di degustazione del vino non esistono

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Mentre all’estero, o almeno nei paesi anglofoni, si discute di strategie per portare il vino nel cuore e nei bicchieri delle nuove generazioni (Millennials e Gen Z), in Italia ancora si discute sull’utilità delle schede di degustazione. Il pubblico del wine world assomiglia sempre più a quello della Chiesa Cattolica: anziano, piuttosto noioso e in forma fisica rivedibile. I “cool kids” guardano (e instagrammano) altrove. Si rivolgono al colorato mondo pop dei cocktail che risulta essere molto più contemporaneo, gender fluid, fotogenico e decisamente più divertente.

La “stampa specializzata”, composta quasi per intero da gente over 50 con sempre meno fiato e capelli sempre più radi, discute ancora di mineralità salina e di note di cardamomo. Si fa persino accenno a vini che ricordano, nel ritmo, una notte di vento. Ricordo che nel mio breve periodo di “sommelier canonico“, ero solito scaricare enormi pdf di riviste per leggere milioni di note tutte uguali, che ripetevano ogni volta gli stessi aggettivi, gli stessi descrittori e la cui lettura faceva apparire eclettici anche i dischi di Ligabue.

Forse prima di discutere se le note di degustazione abbiano ancora senso, c’è da chiedersi se lo abbiano mai avuto. Se lo hanno avuto, forse, era nel vecchio mondo, quello analogico dove i vini erano difficili da trovare e le enoteche luoghi rari. Certo, non ha aiutato che il lessico e la sintassi (esageratamente paratattica) delle schede di degustazione non siano mai cambiate. Ma d’altronde come potevano se venivano scritte da persone sempre più anziane? Cambiavano i vini, arrivavano i pet’nat, il naturale prima e il naturalino poi, cambiavano le regole, i sentori, le grammatiche gustative. I descrittori anni ’70 con le note di gelsomino sono però ancora lì, a cercare di descrivere un mondo che era cambiato e continuava a cambiare.

Non serve scomodare Kant per intuire l’impossibilità di comunicare in modo davvero universale il gusto, ma in ogni caso quelle note di degustazione non hanno mai spostato una bottiglia. Quelle le spostava soltanto Robert Parker (lontano da me come degustatore, ma almeno agli inizi l’unico vero wine writer indipendente), con i voti e non con le schede di degustazione. Quelle non le leggeva nessuno già allora.

Ora, tra un Jamie Goode che degusta su Instagram indossando magliette punk rock, i video cringe di Konstantin Baum e miliardi di medio o nano influencer più o meno titolati, che degustano sui social bottiglie dal costo democratico, restano loro: quelli delle schede di note di degustazione. Maschi bianchi molto soli che scrivono dei chiaroscuri di un Brunello riserva 1984 e postano nei gruppi Facebook (sì, ci sono ancora) a beneficio di conventicole di uomini soli e tristi come un vecchio pezzo dei Pooh.

L’alternativa alle vituperate note, mi si chiederà, quale sarebbe? Diciamo che lo è tutto ciò che non annoia e che parla la lingua viva del mondo vero e non quella barocca e ridondante di un mondo che non esiste. Non ci serve che qualcuno ci parli bene di un Biondi Santi 1990 e del suo bouquet olfattivo. Avessimo i soldi lo avremmo già comprato. Ci serve semmai qualcuno che ci consigli vini da 20 euro per una cena con gli amici. Non ci mancheranno le note di degustazione, perché tanto non sono mai esistite.

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