The Bear non è mai solo una serie sulla cucina e sul cibo, sul mondo in cui viviamo, e sulle nostre vite esauste. Parlare di cibo, è sempre stato un modo per parlare di società, di mondo, di esseri umani e quindi di traumi.
In un’epoca in cui il cibo è sempre più fotografato e filmato attraverso filtri, più simile ad una natura morta che a un estenuante lavoro di “artigianato umano”, il grande assente dalla narrazione dei ristoranti è il trauma. Tutti i personaggi della serie in questione sono a vario titolo spinti e tenuti vivi da un trauma.
Dai lavapiatti somali con alle spalle guerre e perdite, al meraviglioso Carmy (un favoloso Jeremy Allen), con un passato da giovane stella del “fine dining” e che finisce per salvare il Deli di famiglia dopo il suicido del fratello che lo gestiva.
Le cucine del mondo sono sempre posti in cui le persone fuggono da qualcosa, da loro stessi e dalle loro ferite creando, nel frattempo, profumata e colorata bellezza “commestibile“. La cosa che riesce, forse per la prima volta in questo genere di prodotto (non ci arrivava la pur ottima serie Starz, Sweetbitter), è l’ansia del servizio, la devastante pressione per essere sempre in tempo, sempre pronti, per l’inizio del servizio a cui manca, sempre, troppo poco.
Si respira quella perenne situazione di affanno che chiunque abbia lavorato in una cucina professionale ha provato. La sproporzione tra il tempo a disposizione e il numero gigantesco di piccole e grandi cose da gestire e portare a termine entro l’ora x.
Da qui la perenne, insaziabile sensazione di stanchezza. La stessa che vedete nei ristoranti presto la mattina con il lavapiatti che apre il ristorante ancora stanco dalla sera prima. Le sigarette senza sorriso nel back con vista su cemento e cumuli di spazzatura, la situazione di perenne emergenza che solo quelli che hanno gestito ristoranti possono conoscere: perché in un ristorante c’è sempre qualche intoppo pochi minuti prima del servizio.
Ed è da questi luoghi che sanno di acciaio e sudore che esseri umani con occhiaie profonde creano ogni giorno cibi che dovrebbero nutrirci, scaldarci e farci stare bene. The Bear, quindi, racconta la cucina di un ristorante di Chicago dove esseri umani con storie diverse tra loro, litigano, si emozionano, convivono con sogni, traumi e anche speranze.
The Bear è scritta da persone che in una cucina ci sono state dentro davvero, perché racconta la bellezza di una cosa che solo chi è stato dall’altra parte può capire: lo staff lunch. Quella mezz’ora di poesia in cui tutti i compagni di cella, condannati al food, condividono senza parlare troppo qualcosa di saporito (e dal food cost basso), poco prima di cominciare il servizio. Quella mezz’ora in cui i pensieri vanno in pausa, il trauma viene messo tra parentesi e ci si sente quasi felici.
I ristoranti sono posti in cui si urla, si piange, ci si taglia e in cui si rompe sempre qualcosa. I soldi sono non ci sono mai, ma i ristoranti sono forse uno dei pochi posti di lavoro in cui, nonostante le occhiaie croniche e il perenne senso di stanchezza, ci si sente, a volte, ancora vivi.
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