Ripensare il modo di fare ristorazione, posto che se ne avverta profondamente la necessità, è un atto culturalmente rivoluzionario e tremendamente rischioso. La propria identità, la propria sensibilità, il personalissimo sguardo sul mondo diventano il cuore pulsante del progetto. E senza che siano le spinte omologanti e le fredde logiche imprenditoriali a condurre i giochi, si naviga verso orizzonti sostanzialmente sconosciuti.
La cucina di Salvatore Campagna, giovane chef patron del Secondo Tempo di Termini Imerese (Palermo), è un umile manifesto di libertà. C’è il sacro rispetto della stagionalità degli ingredienti, ma al contempo il rifiuto dell’ortodossia nella loro sintesi. Nei suoi piatti affiorano ricordi, sensazioni e rimandi ad altre culture gastronomiche. Campagna è infatti siciliano d’origine, ma australiano di formazione. Ha frequentato, assimilandole, cucine di diverse parti del mondo e questo emerge con nettezza nelle sue proposte. Al centro del menu, quindi, non spiccano tanto le materie prime e le loro sapienti combinazioni, ma la visione e l’identità dello chef termitano. Un po’ come avvenne negli anni ’60 della “Nouvelle Vague” cinematografica: non è la trama a caratterizzare il film, ma la firma stilistica del suo regista.
Il ristorante è esso stesso, fisicamente, manifestazione identitaria. Tre ambienti al primo piano di una palazzina degli anni ’30 che lo chef ha ereditato dai suoi nonni. Non esattamente una “location” convenzionale, soprattutto per il contesto siciliano dove il posizionamento “piano strada” è ritenuta conditio sine qua non per attrarre avventori di passaggio. Un’intuizione e una scelta coraggiosa presa a ridosso dell’esplosione della pandemia del 2020. Appena una trentina di coperti, che diventano circa il doppio in estate quando è possibile (afa permettendo) cenare sulla terrazza dell’edificio. Si alternano salette arredate con un taglio originale, diremmo unico, che comunicano sin da subito la necessità di affermare un’unicità.
In carta due percorsi, il “Mare e Terra” e il “Coltivare“. Il primo conta 7 portate con le “migliori proposte del giorno” indicate nel menu. Il secondo, invece, un menu degustazione alla cieca con 6 portate a sfondo veg che non vengono anticipate. Un bivio culinario, in realtà, facilmente superabile vista la capacità (e il coraggio) dello chef di sostituire gli ingredienti di carne e di pesce del menu a 7 portate, con ingredienti vegetali. Non è un’elasticità comune, quella dello chef Campagna, che evidenzia in realtà la sua volontà di affermare la sua visione di cucina. Come a dire: non sono gli (ottimi) ingredienti di stagione le fondamenta della mia cucina, ma la mia “regia”. E, gliene dobbiamo dare atto, riesce perfettamente nel suo intento.
Come tris di amuse bouche vengono proposti una spuma di carote con crumble croccante leggermente aromatizzato al tartufo, una tartalletta di pasta fillo con pesce spada marinato e uova di trota e un biscotto di pasta ubriaca con crema di ricotta e pomodoro confit.
A condurre il percorso in sala c’è Erica Sparacello, maître (romana di nascita ma con origini siciliane) che conquista con la sua coinvolgente vivacità. Ha dato forma ad una carta dei vini contenuta per numero di referenze, ma ricca di contenuti. Piccole e piccolissime realtà vitivinicole, siciliane e non, lontane da riflettori e grande distribuzione. Ed è qui che entra in gioco il ruolo della maître sommelier, pronta a raccontare territori marginali e blend inediti. Il giusto e coerente accompagnamento per un percorso gastronomico che si articola in portate di complessità crescente.
Come antipasto una mazzancolla servita con salsa ponzu alla cipolla rossa, sfera di frutto della passione, insalatina alla palermitana e una cialda all’origano. Carnosità, rotondità e spinta acida si incontrano bene e divertendo. Non è un piatto “oscuro” e difficile da leggere, è una semplice mazzancolla. Ma che viene accompagnata da note vegetali ed orientaleggianti che la elevano a portata godibile.
A seguire polpo affumicato “in casa” con legno di alloro e cotto sottovuoto, salsa ristretta di polpo alla Luciana, purea di basilico e spuma di patate. Un richiamo alla tradizione, in questo antipasto, c’è. Il polpo alla Luciana, l’insalata di polpo e patate, il polpo “bollito” alla palermitana. Almeno tre anime per una portata ben eseguita e piaciona.
Con la zuppa di cecio nero di Villalba con misu, radicchio del nostro orto, vegetali ed olio di sesamo, si entra nel campo del “comfort food” d’autore. Nel cucchiaio si racchiudono consistenze differenti e marinature vegetali che raccontano di sguardi su culture gastronomiche nordeuropee. Difficile sbagliare con ingredienti così autenticamente territoriali e una preparazione tanto rispettosa degli equilibri.
Quindi i primi di Secondo Tempo. Bottone ripieno con ragù classico al nero di seppia, servito con crema di fave e finocchietto, una fonduta di ricotta salata e salsa alla ‘nduja. Colore che diventa sapore, un “piatto della domenica” nel quale ad emergere è la delicatezza. L’assenza di una lunga persistenza al palato, in questo caso, è un bene. È una spia di moderazione nella valorizzazione dei sapori più decisi e di sapienza di impiego delle componenti più delicate e aromatiche. Vince, anche in questo caso, l’equilibrio.
E si giunge a quello che potremmo definire il vero piatto cardine del nostro percorso: “Suggestione di sottobosco“. Un risotto con acquerello invecchiato un anno, brodo di pollo e porcini, ristrettissima demi-glace alle verdure, salsa al lampone, crema di erbe selvatiche. Alla sommità polvere d’aglio nero, tartufo scorzone locale estivo siciliano e insalatina di erbette aromatiche. Il consiglio, sacrosanto, dello chef è di non mescolarlo. È davvero un capolavoro, una portata che conquista in due tempi: prima con un gioco di contrasti tra spinte acidule e note vellutate, poi con una lunga, complessa e sorprendente persistenza al palato. E sì, profuma davvero di sottobosco.
L’unico secondo del percorso è una guanciotta di maialino conto lentamente per 48 ore, chutney di albicocca e marsala con maionese al curry. In più, sul fondo, abbiamo uno spinacino saltato. Qui le note leggermente affumicate del maialino si armonizzano con le salse che sgrassano e addolciscono, alternativamente. Cottura della carne magistrale.
A chiusura, il predessert: yogurt al naturale con miele grezzo e sorbetto ai frutti rossi. Anche i dessert, da Secondo Tempo, puntano sull’immediatezza, come il tiramisù (savoiardo inzuppato, ganache al cioccolato fondente, gelato al caffè, mousse al mascarpone e cacao tartufato) e le fragole e panna arricchite da girelle di pasta sfoglia.
Salvo Campagna ha saputo reinventarsi. Ha puntato su sé stesso ponendosi come punto di riferimento di un nuovo modo di fare ristorazione in Sicilia. La guide lo hanno già premiato, è vero, ma probabilmente non ancora in maniera commisurata alla qualità della sua offerta ristorativa. Questione di tempo, questione di illuminazione: serve uscire dal torpore delle antiche e morenti categorizzazioni per riconoscere le nuove eccellenze. E Secondo Tempo, senza timore di smentita, lo è.
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