E se il rosso del futuro venisse dalle colline saluzzesi, e fosse di un’uva di cui non avete (quasi) mai sentito parlare? Già parlare di pelaverga piccolo, ancora meno conosciuto dell’altro (https://www.slowfood.it/slowine/sono-due-quello-grosso-e-quello-piccolo-entrambi-piemontesi-le-migliori-etichette-in-commercio-di-pelaverga/), quello grosso, tipico di un altro Piemonte, con cui non condivide affinità genetiche, ma solo semantiche, questo è l’autoctono di Saluzzo.
Visiva calvinista, scarica e affascinate, profumi in punta di piedi, in levare, si potrebbe dire, tra rosa, spaziature, e una ciliegia timida, mia stucchevole o assertiva. Le leggerezza qui non è mai banalità, un vino pronto di beva ma mai, mono dimensionale, segno che forse i vini, (come le persone del resto) per colpire non devo dire troppo, devo dire, semplicemente le cose giuste, come quelle che ci sono in questa bottiglia.
Equilibrato ma croccante, sorretto da un’acidità essenziale e integrata come un giro basso ben fatto, un vino cool nel senso del primo Miles Davis, dove non ci sono note stonate, o superflue ma un’unica, essenziale armonia. Se più vini rossi fossero così, le persone ne berrebbero molti di più, non un rosso da crypto bro, ma un rosso da esseri umani curiosi.
Un vino esile e cool, un pelaverga che di piccolo ha solo l’aggettivo. Da abbinare a Rouge, (https://open.spotify.com/track/6gsNEFX5nwa6indu4oub7d?si=739f49657db34b73) dal primo classico di Miles, essenziale, dritto e freschissimo come questo vino.
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