“Non trovo nessuno, quindi sfrutto”, i nuovi padri-padroni della ristorazione e la flessibilità

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In questi giorni si parla della grande crisi economica del settore della ristorazione e di come gli imprenditori siano alla continua ricerca di personale. Noi, il paese con l’immagine gastro-culturale più raffinata e famosa nel mondo che non trova valorosi lavoratori. 

Sarà sicuramente colpa del Reddito di Cittadinanza! Cavolo, i Cinque Stelle sono stati proprio la rovina dell’Italia. Per non parlare poi di quelli che ora invocano il salario minimo. Chi si pensano di essere? Lo sanno quello che significa mandare avanti un ristorante? Prima si lavorava in silenzio. 

Ecco, forse oggi si lavora lo stesso, ma non più in silenzio. Oppure oggi non si lavora più, perché si parla. Oh, si, proprio perché si parla dopo i colloqui di lavoro. Colloqui che sembrano l’inizio della “tratta”. 

Il famoso “lavoro povero”, riguarda per grandi numeri proprio il settore della ristorazione. Non è vero che i giovani non hanno voglia di lavorare il sabato sera. Semplicemente, non hanno voglia di essere sfruttati e sottopagati. Gli imprenditori che in televisione si strappano le vesti lamentandosi di avere ricevuto rifiuti nonostante la disponibilità ad assumere con contratti allettanti, guarda caso, non sono mai gli stessi che ho incontrato io o tanti altri ragazzi. 

Spieghiamo semplicemente come funziona: viene fatto un contratto in genere da sei ore al giorno per sei giorni su sette, oppure il famoso cinque giorni e mezza giornata con turno spezzato (il sesto giorno fai solo pranzo o solo cena con mezza giornata libera). Bene, queste sei ore non verranno mai rispettate e le altre mai pagate. Ragionate bene: un cameriere o un cuoco come fa a preparare la sala arrivando a lavoro alle 12 e concludere il servizio alle 15? Quanti di voi hanno visto ristoranti aperti prima delle 12 anche solo per pulire? 

L’anno zero della ristorazione

Arriviamo alla sera. Facciamo finta che si lavori 4 ore, quindi dalle 19 alle 23. Voi che state leggendo, vi siete mai protratti a ristorante ben oltre le ore ventitré? Penso proprio di si. Bene, penso sia chiaro a tutti che chi lavora nei ristoranti fa orari impossibili. Minimo dieci ore al giorno. Di queste 10 ore al giorno ne vengono pagate 6 (e anche male). Parliamo di 5.50 euro l’ora in alcuni casi. Meglio va per alcuni, magari più esperti, che riescono ad ottenere 7 o 8 euro l’ora. 

Ciò che ho appena descritto è semplicemente un quadro generale di un lavoro annuale all’interno di un ristorante. Forse conviene non addentrarsi nelle famose “stagioni”: 13-14 ore al giorno, 3 servizi al giorno (colazione, pranzo e cena) e sette giorni su sette. 

La domanda sorge allora spontanea: la colpa è del Reddito di Cittadinanza oppure del lavoro in sé? Fino ad oggi sul settore ristorazione si è chiuso totalmente l’occhio. Cucito praticamente. Si sono fatte grandi discussioni dove tutto si divide in amico (l’imprenditore) o nemico (giovane che chiede di essere rispettato). Oggi, i giovani, hanno paura di andare ad un colloquio, soprattutto nel ramo della ristorazione e chiedere giorni, orari di lavoro e paga. Se lo fanno, vengono etichettati come “arroganti”. 

Allora la prossima volta che chiamate l’idraulico o l’elettricista, non chiedete un preventivo all’inizio, ma pagate alla fine, qualunque sia la cifra. Riprendiamo le interessanti parole dell’Onorevole Nicola Fratoianni: “Questo è un paese gravemente malato e la malattia è lo sfruttamento”. Il settore della ristorazione vive quotidianamente di soldi in nero, tutti lo sanno, ma nessuno fa nulla (vedi stangata Covid). 

Il problema però è che i ragazzi non sono “flessibili”. Lavorare 14 ore al giorno? Flessibilità. Paghe da 900 euro? Flessibilità. Forse in Italia va bene così. Va bene così perché la scuola alberghiera, che dovrebbe fornire la base lavorativa di una delle arti più apprezzate all’estero, è da sempre bistrattata e mal gestita. Forse volontariamente. È spesso etichettata come la scuola degli asini. Questo perché il popolo deve ignorare, non deve sapere, perché se sa, si ribella. 

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