A Ferragosto abbandonate spritz e mojito, meglio un “Don Pippinu” 2016

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Era l’anno del Royal Weedding e di altre cose noiose, di amore, capoeira e felicità meretrici, ma anche di grandi vini, tipo il “Don Pippinu” 2016 di Vini Scirto .

Parlo di un rosso la settimana di ferragosto perché sono un (eno) snob, perché sono uno che considera gli sprtiz un crimine e i mojito pura ignoranza, perché credo che le cose facili non debbano per forza essere banali e che quelle semplici non debbano essere per forza stupide.

È un vino adatto per il mondo dopo questo, un vino carnoso e carnale che ci ricorda come spesso i grandi vini, che siamo prima di tutto, corpo, anima poi, se resta tempo.

Un corpo sì, perché è un Etna da quattordici gradi e mezzo che detta così basterebbe per smettere di leggere e ricominciare in autunno, che però non è una prigione, che in bocca è inaspettatamente agile per la stazza, come certi centri serbi dell’Nba.

Il “Don Pippinu” 2016

Agile e con la grinta irrequieta di un esordiente, un vino che graffia ancora ma dolcemente, poeticamente contadino nel suo essere scuro ma mai umbratile, succoso ma zero ruffiano.

Difficile che un rosso da 14 gradi e passa sia dissetante, ma lui lo è, un mascalese che non gioca alla borgogna, che Giuseppe e Valeria Scirto le mode non le hanno seguite mai. Se hanno seguito qualcosa è la loro storia, della loro vigna e della montagna da cui nasce, forse per questo naturale senza estremismi, poco enologico e tanto eno-laico. Balsamico non solo al naso ma anche per l’anima, un vino che aiuta a meditare su ciò che è stato, o immaginare nuove ripartenze altre storie e futuri più o meno anteriori.

Si perché nel suo tannino ancora verdeggiante che suona la carica tra il frutto, la sua freschezza di pancia, fisica, drammaticamente onesta, si fa strada il futuro, un vino che “sarà” non “che sarebbe bello fosse”, un vino che ha il domani davanti e non alle spalle, come spesso accade ai rossi troppo ambiziosi anche a queste latitudini.

Un vino terrestre, agricolo, per questo eternamente contemporaneo, un vino con dentro il cuore, e nell’unghia del calice, il nero fuoco dell’Etna e del Free Jazz, io ci abbino un  jazz libero e pieno di sotterranea energia. Lui si chiama Andrew Hill, il pezzo si chiama Black Fire: un pezzo che sembra essere dedicato all’Etna. Magari lo era, le vie del Jazz (e del vino) sono infinite.

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