
C’è un’associazione che vuole mettersi al servizio delle 94.000 aziende che in Italia si prendono cura complessivamente degli oltre due milioni e mezzo di ettari di superficie certificata in bio. Dalle Alpi alla Sicilia, quasi il 20 per cento della superficie agricola utilizzata (Sau) in tutto il Paese. Come dire – se esiste ancora qualche residuo di incomprensione tra Sud e Nord di Italia – nel biologico l’unione è perfetta. L’associazione è Italia Bio e il suo presidente, il siciliano Lillo Alaimo Di Loro, ha diffuso una nota per promuovere l’agricoltura biologica.
«Nell’insieme l’Italia del bio risponde all’unisono con la sua cultura del buon produrre, del buon vivere e del buon bere», dichiara Alaimo Di Loro. Lo confermano i numeri dell’ultimo rapporto Bio Bank, secondo il quale il valore del mercato del bio sale a 9,1 miliardi di euro nel 2023, registrando un incremento dell’8,7% sull’anno precedente e un +135% rispetto ad un decennio fa.
Dal rapporto emerge poi che i consumi bio interni superano i 4,2 miliardi e crescono anche i consumi fuori casa, stimati sui 1,3 miliardi. L’Italia si qualifica inoltre (secondo fonti Fibl-Ifoam) al primo posto per l’export su 41 Paesi europei. Notevole è anche il dato sui trasformatori da cui emerge che sul totale europeo di 92 mila aziende, 23.600 sono italiane, praticamente una su quattro. Di certo, rimane il fatto che buona parte di tale valore viene intercettato dai meccanismi della grande distribuzione che talvolta finiscono per contrarre in modo inaccettabile la giusta gratificazione delle imprese agricole. Da qui il grande potenziale di una strategia rivolta allo sviluppo della filiera corta organizzata e della vendita diretta in una logica di «altra economia», basata sul valore del cibo sano e solidale, strumento della felicità dei popoli e non di «commodity» per le speculazioni di Borsa.
La solidità dell’economia green di cui l’agricoltura biologica è perno, la sua indiscutibile performance, traccia una linea di tendenza sicuramente vincente, rispetto alle linee di sviluppo dell’economia tradizionale, inoltre risponde alla ridondante necessità di porre argine alle emergenza ambientali connesse al sistema di produzione convenzionale, energivoro e dispendioso. «Pensiamo solo all’industria dei fertilizzanti di sintesi. Un affare da 70 miliardi di dollari, responsabile dell’emissione di 1,25 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno», spiega il presidente di Italia Bio.
Il dato è inquietante, se si considera che la Fao stima una crescita del loro consumo pari al 50% entro il 2050 in una contesto che vede il consumo mondiale di fertilizzanti – secondo le stime del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) – essere aumentato di otto volte dal 1960. A questo si aggiunge la sempre crescente riduzione dell’efficacia dei fertilizzanti, per cui i campi resi sterili dalla chimica richiedono per unità di prodotto sempre maggiori unità fertilizzanti. Senza che per questo sia stato risolto l’annoso problema del cibo per tutti, con circa 800 milioni di persone che ancora soffrono la fame.
Secondo Alaimo, è necessario «darsi appuntamento sui territori per parlare di performance agronomica e ambientale dei sistemi produttivi biologici e sostenibili e di responsabilità dei consumi. A partire dagli ordinamenti colturali che prevedono la presenza di animali, là dove possibile, le rotazioni con le leguminose, il sovescio e tutte le forme di valorizzazione della sostanza organica e di ogni forma di biodiversità per rendere performanti i sistemi produttivi rurali e bilanciare il rapporto con il sistema urbano».
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