Tranquilli, non è un grillo in purezza. Da qualche tempo il vino siciliano sembra vivere una fase sanremese, o se volete visto che siamo in tema, “primo maggese”. Si assiste alla continua reiterazione di variazioni sul tema di ciò che va più di moda, nella speranza di agganciare un trend, una wave, un qualcosa a prescindere.
Tutti i vini siciliani, ultimamente, tendono, tristemente, ad assomigliarsi. L’omologazione diventa un pregio, le visioni declassate a rischi, il presente l’unico tempo possibile. Poi arriva il Triántatrìa di Siquelia, un vino che non c’era in un panorama in cui si fanno sempre più vini nuovi che però sono uguali a quelli che ci sono già.
Per chi come me ha la (s)fortuna di bere vini per lavoro, la vita spesso assomiglia ad un eterno (eno)giorno della marmotta. Poi però arriva il Triántatrìa di Siquelia e forse comincio a pensare che sì, forse è bello fare quello che fai: bere vino e poi, se è il caso, scriverne.
Vermentino, cataratto e grecanico sono gli azionisti alla pari di questa bottiglia. Tranquilli, siamo in pianura, anche se ormai tutti in Sicilia raccontano di fare vini in altura o collina, come se l’isola fosse fatta solo di montagne come una specie di Alto Adige col mare intorno.
Alsaziano, non solo per la bottiglia. Questo bianco affina in acciaio otto mesi e non cerca mai di essere contemporaneo, senza però essere démodé o neoclassico. Visiva dorata, ma senza stanchezza, olfatto tondo ma curioso, riconoscibilità un po’ meno scontate, un po’ meno serie, un po’ meno cliché: pera, note balsamiche, ricordi d’estate.
Al palato è di corpo ma agile, drammaticamente dinamico, di una intensità che non diventa mai compiacimento. Un bianco intensamente leggero come non se ne vendevano e bevevano da tempo, almeno a queste latitudini. La sua facilità immediata non si fa mai banalità e in questo ricorda i primi dischi dei Blur (lo so è un po’ da boomer), da abbinare con Country House. D’altronde siamo nella valle del Belice, pronunciatelo come volete.
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