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Ad aprile 2024 è ufficialmente partito l’iter per il riconoscimento della Cucina Italiana come Patrimonio immateriale dell’Unesco. Dopo Messico, Corea, Francia e Giappone – le uniche cucine che nella totalità o in parte sono già iscritte nella lista – ora tocca all’Italia, culla di storia, poesia, arte e bellezza, tutto ciò che la cucina nella sua essenza e forma racchiude. I nostri cuochi sono produttori di cultura, estetica e gusto, sono soprattutto ambasciatori e narratori della storia dei singoli territori, dei prodotti, delle persone che sono il vero patrimonio della cucina italiana. Ed è proprio l’identità territoriale che si esalta come concetto con questa candidatura, soprattutto quando si mette in dubbio se esista o meno una vera cucina italiana. Un concetto complesso e composito, più che un’equivalenza lineare. L’Italia, infatti, fin dall’antichità è stato un paese fatto di tanti territori speciali e diversi, ognuno con il suo Dna agroalimentare, con le sue tradizioni, i suoi sapori, ma tutti partecipi di una grande e unica idea, che è quella della cucina italiana.
Nata nel 2023 su impulso della Fondazione Casa Artusi, dell’Accademia Italiana di Cucina, del Collegio Culinario e della rivista La Cucina Italiana ed elaborata da un gruppo di esperti coordinato da Pier Luigi Petrillo e da Elena Sinibaldi, tra i quali Maddalena Fossati, direttrice de La Cucina Italiana e gli chef Gennaro Esposito e Davide Oldani, questa candidatura vuole sottolineare con forza il rapporto diretto che esiste tra ciò che mangiamo e il nostro territorio, una questione culturale al 100% che come più volte ribadito dal team di lavoro ha l’obiettivo di proteggere l’identità e la cultura delle persone. Il dossier che è stato presentato evidenzia come nel nostro Paese la pratica culinaria sia un elemento quotidiano e un modo di prendersi cura di sé e degli altri, non solo un’azione di semplice nutrimento, ma attività attraverso cui si riflettono e si tramandano le origini, mantenendole vive. Un piatto non è solo una ricetta, ma il racconto di un luogo, di una famiglia, di un’epoca storica e delle sue usanze; al di là di dosi e preparazioni, di ingredienti e rivisitazioni la cucina italiana è fatta di questi elementi intangibili ed è proprio questo aspetto immateriale ed intrinseco a renderla così importante e affascinante, oltre che apprezzata nel mondo. La sua fama internazionale dovuta ai molti emigrati italiani sparsi all’estero, che hanno contaminato gli altri paesi con la tradizione gastronomica italiana, sarà un ulteriore plus per questo riconoscimento.
Ma cosa contiene il dossier? Togliamo subito ogni dubbio: non si parla di ricette, né tanto meno di prodotti o piatti tipici. Nel testo della candidatura si parla di ruoli di famiglia, di eccellenza dei prodotti e del lavoro dei produttori, fino all’arte del tramandare saperi e gesti della nostra cultura, nell’incredibile biodiversità di ingredienti e di culture regionali. Il focus di questa candidatura è la sostenibilità e la grande biodiversità che l’area del Mediterraneo offre. La candidatura non è, dunque, una difesa intesa come tutela di prodotto, ma di sapere e di saper fare, un processo di valorizzazione della cultura che ruota intorno al nostro modo di mangiare e concepire il cibo. Nello specifico, si parla di «cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale», due temi che sono anche le due mission dell’Unesco. La nostra cucina è infatti una cucina semplice, ovvero senza eccessive trasformazioni e lavorazioni, legata al territorio e ai suoi prodotti, una cucina che nasce da un approccio povero, sostenibile e del riuso. Nel dossier poi si spiega anche che a contraddistinguere la cucina italiana è quel mosaico di diversità territoriali frutto di influenze culturali che si sono succedute nel corso dei secoli e il suo continuo cambiamento che la rende nuova e dinamica. C’è anche un rimando valoriale alla dieta mediterranea (già patrimonio Unesco) un concetto più vasto che si lega ad uno stile di alimentazione presente in tutto il bacino e che accomuna i vari popoli.
Ma vediamo come sta procedendo l’iter di riconoscimento. Per addentrarci meglio in questo meccanismo abbiamo parlato con Alfonso Pecoraro Scanio, già ministro dell’Ambiente e dell’Agricoltura, oggi presidente della Fondazione Univerde, il quale, assieme a Maddalena Fossati Dondero, è stato il promotore della raccolta firme per la candidatura. «Al momento il processo di candidatura è a metà del suo percorso, siamo in fase di analisi. Il dossier che lo rappresenta è stato consegnato a un organo di valutazione, che esaminerà tutte le candidature presentate all’Unesco, poi a novembre 2025 si riuniranno gli esperti mondiali in una commissione per la valutazione finale e alla fine del 2025 dovremmo avere confermata l’iscrizione». Pecoraro Scanio è fiducioso: «Ci sono tutte le condizioni – dice – per l’approvazione finale. Dopo il riconoscimento Unesco della Dieta Mediterranea e dell’Arte del Pizzaiuolo Napoletano, questa nuova candidatura ha grandi potenzialità di riuscita, considerando anche il valore culturale riconosciuto nel mondo alla cucina italiana».
L’ex ministro giudica significativa quella che chiama «la grande vittoria che abbiamo avuto sull’arte del pizzaiuolo napoletano e quindi sul prodotto più noto del mondo. All’epoca ne sono stato il promotore con riconoscimento ufficiale arrivato nel 2017 e ammetto l’operazione di approvazione della candidatura presso il Ministero della cultura non fu affatto semplice, in quanto non era immediato riconoscere nella pizza napoletana e nel suo artigiano un sistema culturale e un simbolo di identità nazionale e non solo un piatto. Stessa cosa è successa anche con la cucina italiana, in quanto si avverte ancora una certa resistenza a riconoscere l’agroalimentare come uno dei settori dei nostri beni culturali. Per fortuna il precedente riconoscimento ottenuto, così come quello della cucina francese o messicana hanno spianato la strada. Dopo aver superato quello scoglio con il massimo risultato ne abbiamo subito visti i frutti, ovvero il riconoscimento a livello globale che la pizza rappresenta un territorio e la sua storia, ma soprattutto che i prodotti per fare la pizza devono essere made in Italy. Il tema della cucina italiana che stiamo portando avanti oggi lavora in questa direzione e rafforzerebbe la conoscenza e la diffusione della nostra vera arte culinaria di tradizione contrastando la miriade di ristoranti “pseudo italiani” o il finto “italian food”». Quella del 2017 è stata la campagna più popolare dell’Unesco, con ben 2 milioni di firme da 100 paesi diversi.
«Per la cucina italiana – conclude il presidente di Univerde – siamo stati facilitati nell’attività di candidatura perché l’Italia ha già un sistema riconosciuto di tutela e di certificazioni di garanzia e di appartenenza territoriale, pensiamo in particolare gli oltre 5 mila Pat (prodotti agroalimentari tradizionali) un elenco che costituisce un vero catalogo dove troviamo singoli prodotti, così come piatti e ricette, per non parlare di quella biodiversità che ci invidiano nel mondo e che ci regala migliaia di vitigni autoctoni e innumerevoli cultivar dall’olio (oltre 500 contro le 138 della Spagna che produce più olio di noi)». Arrivare alla nomina, a giudizio di Pecoraro Scanio, «sarebbe anche una grande rivalsa nei confronti di tutti quei cibi spacciati per Made in Italy e che invece screditano i valori del nostro sistema gastronomico, che non è semplicemente cibo, ma un vero e proprio simbolo identitario per un intero popolo».
Sebbene la candidatura Unesco nasca con obiettivi di altro tipo, è innegabile che ci sarebbe anche un grande impatto economico. Aumenterebbe l’esportazione dell’agroalimentare e si avrebbero ripercussioni sulla filiera dell’agroalimentare, che verrebbe salvaguardata attraverso interventi mirati a sensibilizzare chi produce a fare sempre meglio. Tra i vantaggi più grandi iscriviamo anche la lotta all’italian sounding: sono molti, infatti, i prodotti italiani popolari all’estero che vengono imitati e spacciati per nostri, con questa nomina forse finalmente riusciremo a far capire quali sono i veri prodotti italiani e a farli distinguere dai fake. Ci sarebbe infine un riconoscimento culturale a tutti i livelli, anche quello dell’educazione alimentare nelle scuole, mentre la comunità internazionale riconoscerebbe che il cibo per l’Italia e gli italiani è un fenomeno ed espressione di cultura con ricadute in termini turistici, che si traducono in richiesta di esperienze immersive da vivere in loco.
Insomma dal riconoscimento trarrebbe vantaggi l’Italia intera, ma anche gli italiani all’estero, che si prenderebbero una rivincita sul fatto che da sempre vengono presi in giro per quelle tradizioni gastronomiche a cui rimangono legati e che da troppi sono viste come stravaganti. Forse ora agli occhi degli stranieri il cibo non sarà solo un modo per sfamarsi, ma un’esperienza, proprio come andare in un museo. Rendere la cucina sempre più internazionale è tra le chiavi di lettura di questa candidatura. Non significa contaminarla, ma renderla comprensibile, saperla raccontare nel modo giusto per farci apprezzare ancora di più. Una cucina che non deve essere solo buona per il gusto, ma per ciò che rappresenta e di cui si fa simbolo. Come sottolinea lo chef Gennaro Esposito, tra i referenti della candidatura, la cucina italiana è un atto di responsabilità culturale. In uno spaghetto al pomodoro o in un classico piatto da trattoria ci sono saperi e ricordi, c’è la sapienza del passato e del presente, oltre che tecnica e materie prime eccellenti, non ultimo tra gli ingredienti indispensabili anche quello umano. Quella italiana è una cucina fatta anche di gesti e ha la necessità d’essere codificata e riconosciuta, non solo tramandata nelle generazioni come puro atto romantico. La cultura del cibo non è altro che una questione di approccio e responsabilità: chi lo prepara, che sia un panino o un piatto del menù, deve prepararlo con un atteggiamento di orgoglio e responsabilità, di tutela e difesa verso la nostra cucina, perché se smettiamo di cucinare con sentimento, probabilmente smetteremo di esistere.
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