“I ristoranti italiani erano troppi”, titola qualcuno. “È giusto che chiudano in tanti”, è il logico corollario che ne deriva. Basta citare qualche numero qua e là, qualche calcolo googolato qua e là, e la tesi è fatta: i ristoranti sono troppi e se ne chiude qualche migliaio tanto di guadagnato. Ne guadagnerà la qualità dei piatti, rimarranno i migliori, è la legge del mercato no? Nei momenti di crisi sono i migliori, i più bravi, i più capaci che sopravvivono, si studia in tutte le facoltà di economia.
Certo queste persone, che nei ristoranti non ci hanno mai lavorato o che al massimo ci hanno mangiato gratis (spesso lamentandosi delle porzioni), hanno una fortuna: possono semplificare. Nella realtà è molto più difficile farlo: i numeri ti permettono sempre di farlo, le storie delle persone molto meno. Ho lavorato in posti che riciclavano i denari delle mafie, ho lavorato in posti sulle migliori guide del mondo, ho lavorato in posti in cui i titolari facevano debiti per potere pagare gli stipendi nelle stagioni morte, ho lavorato in posti in cui dopo una giornata di lavoro di sedici ore, mi veniva detto “abbiamo lavorato poco, prendi 5 euro“, ho lavorato in posti dove pagavano le ferie, ho lavorato in posti dove i titolari rubavano le mance per comprarsi le sigarette. La ristorazione, italiana e non, è una cosa complessa, come ben sa chi ci ha lavorato, mai riconducibile a stereotipi, cliché, risposte prestampate, come tutte le cose umane.
La provocazione: i ristoranti sono troppi
Un articolo molto letto in questi giorni parla, ovviamente, di riciclaggio e di lavoro nero. Si tratta di pratiche certamente diffuse, sbagliate, anomale, da stigmatizzare e combattere, sempre. Ma siamo sicuri che non saranno proprio quelli che possono attingere al cash flow delle mafie (d’altronde chi altri può avere cash flow di questi tempi?) o quelli che hanno accumulato patrimoni evadendo le imposte senza mettere in regola il personale, quelli che non hanno mai pagato F24, ferie e TFR? Non saranno forse loro avvantaggiati al momento della riapertura rispetto a quelli che invece gli F24, i TFR e tutte le altre cose li hanno pagati?
Non si rischia (come quasi sempre in Italia) di beffare ancora una volta chi le regole le aveva seguite. Non si rischia di fare sì che tra i sommersi non ci siano quelli della pasta precotta e del lavoro nero, ma quelli che usavano ingredienti di qualità e mettevano in regola i dipendenti? Certo c’era tanta improvvisazione, tanta approssimazione nella ristorazione italiana, ma non è che in tanti altri settori vada poi tanto meglio. Non ci sono forse troppi saloni di bellezza, parrucchieri, fornai o studi di professionisti nelle nostre città?
I rischi del settore
Molti di essi non svolgono un lavoro di qualità, eppure nessuno si sentirebbe di dire che sono troppi e che non servono. Una delle cose che poi si tende a dimenticare è che i ristoranti producono occupazione, anche se a volte mal pagata e precaria. Le cosiddette start-up che vanno tanto di moda ora, quanti posti di lavoro sono in grado di produrre? Siamo sicuri che i posti di lavoro creati dalla new economy (non sono troppi anche i social media manager? Qual è il confine del troppo?) siano tanto migliori, come diritti e retribuzioni, di quelli del floor e della cucina di un ristorante.
Il vero rischio, specie nel Sud, è quello di vedere soccombere sotto i colpi della “mano invisibile” del mercato solo gli esempi virtuosi, quelli che tengono in piedi filiere virtuose di prodotti e di esseri umani, per ritrovarci solo città con pasti a menu fisso con prodotti stranieri a basso costo, saporite bistecche da allevamenti intensivi servite da persone pagate in contanti a fine serata, ovviamente solo se si sono fatti abbastanza coperti.
La posta in gioco in questo momento storico è molto alta e pone una questione politica, questa sì, molto semplice: che tipo di ristorazione vogliamo?
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