Addio al vino naturale, adesso è l’era del “naturalino”: così finisce un grande sogno

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Quelli anziani come me se lo ricordano bene come era bello il vino naturale. Etichette coloratissime che sembrano disegnate (e a volte lo erano), volatili così alte che sembravano volere arrivare al naso di Dio, persone alla loro terza o quarta vita che volevano cambiare il mondo. Il vino per la prima volta era rock’n’roll, senza le Stratocaster

Ci sentivamo, se non rivoluzionari, almeno carbonari e rivendicavamo la diversità come un arrogante diritto. Volevamo almeno un po’ cambiare le cose partendo dall’agricoltura. Bevevamo vini che i poliziotti della qualità dicevano puzzare, ma che erano facilitatori di baci, di sogni e di poesia.

Erano gli anni di Obama, le cose mutanti e ibride andavano di moda e sembrava si ci fosse spazio per le cose “differenti”. La pandemia poteva essere l’occasione per uno scatto di lato, fuori dai social, dalle views, dalle corporations, dalle marchette, dalla carne rossa, dai fogli excel, dal lavoro come era inteso e da un sacco di altre robe così.

Beh, diciamo che le cose sono andate diversamente e a trionfare è stato il “naturalino“. Naturalino, appunto, quasi naturale. Si sono perse di vista l’agricoltura e le terra e tutti i liquidi che vengono versati nei bicchieri sono il trionfo del non rischio, del ben fatto. A volte con una leggera carbonica, una leggera volatile e una strizzata d’occhio al mondo di prima. Ma senza essere destabilizzanti, mai. 

Vino naturale” è diventata una categoria merceologica, un capitolo nei cataloghi patinati delle grandi aziende di distribuzione. Si dice che sia diventato di moda, ma in realtà a diventare di moda non è il vino naturale, ma la sua versione “normalizzata”, depotenziata, bellina e filtrata (in tutti i sensi).

Meno solforosa o meno chimica possibile, ti dicono fieri i produttori del naturalino. Glissano quasi infastiditi sulla provenienza delle uve assicurando però di volere assecondare il più possibile i processi naturali. Si insite sul concetto di territorio, che tutti si vantano di esaltare, ma che appunto è sempre più fumoso, criptico e sfuggente.

Insomma, il produttore del naturalino fa quello che può. Fa i vini nel modo più naturale possibile e forse è da questo che distingui le rivoluzioni dai posizionamenti di mercato, le utopie dalle start up. Il rivoluzionario e l’utopista cercano l’impossibile, gli altri, no. 

I vini naturali sono sempre più puliti, più ben fatti, piacciono anche ai critici bianchi di mezza età con problemi di prostata, alle associazioni ufficiali dei sommelier, stanno nei wine bar trendy e finalmente nel fine dining. Proprio ora che sta finendo, mannaggia.

I naturalini piacciono a tutti, sono tecnicamente perfetti, hanno smesso di puzzare: sono diventati così perfetti che ormai non li distingui più da tutti quelli ci sono sempre stati. Nessuno parla più di sostenibilità ambientale, di pratiche agricole virtuose, di fare sistema in un territorio. Si parla solo di ciò che c’è nel bicchiere, di pulizia, di piacevolezza. Sono quasi tutti vini carini ma non c’è più niente di veramente “diverso”. 

Forse sono io che sono invecchiato, o forse boh. La sensazione è che ci si diverta sempre di meno e che oltre alle puzze strane, alle volatili e ai residui di quattro dita in fondo ai Pèt’Nat si sia perso molto altro. Adesso col trionfo del naturalino, del possibile, del pulito e del carino. Si ha la sensazione che i liquidi siano come gli arredi minimal dei bar alla moda: cose carine che non emozionano. Come gli ultimi dischi di Brunori Sas. 

Certo ancora ci sono, e sempre ci saranno, persone alla terza vita che da uve quasi estinte si metteranno a fare vini punk, la cui volatile assomiglierà al primo disco dei Libertines. E sarà ancora bello baciarsi tra estranei bevendo vini imperfetti e bellissimi.

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