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My name is Renatino, la sostenibilità del cibo è classista?
02 Dic 2021 17:07

Il cibo è classista, lo è sempre stato, i ricchi hanno sempre mangiato meglio dei poveri.
C’è sempre stato chi ha lavorato duramente per permettere ad altri, più fortunati, di potersi sedere a tavola e mangiare qualcosa, senza averlo prodotto, cucinato, raccolto. Ora però, nonostante il sempre più forte paradigma di un cibo “green, pulito e sostenibile”, abbiamo smesso (o forse non abbiamo mai davvero iniziato a chiederci) per chi sia effettivamente sostenibile questo cibo meraviglioso a impatto zero che nelle storie IG ci vantiamo di consumare.

Le polemiche attorno al nuovo spot di Parmigiano Reggiano si sono agglutinate attorno alla figura di Renatino, casaro highlander (usare stakanovista sa troppo di nostalgie sovietiche) che lavora da sempre, 365 giorni l’anno. Difficile immaginare qualcuno che lo aspetta a casa, difficile immaginare anche che abbia una casa (a che pro?), se tutta la tua vita si svolge al cospetto di una vasca di latte meraviglioso, senza additivi né conservanti. Chi se ne importa di avere una vita se contribuisci a creare uno dei prodotti più sostenibili al mondo, una festa di umami per il palato.

Renatino è solo uno dei tanti casi in cui ci ricordiamo che in questa comunicazione i lavoratori non ci sono mai. È una narrazione tutta filtri e luci giuste con giovani che immortalano con i loro i-phone campagne perfette, recinti con animali liberi, galline che cantano, vigne gonfie di grappoli maturi e spremute verdissime di olive nuove. Ma appunto, gli esseri umani non ci sono mai.

Il lavoro agricolo, forse il più duro del mondo, e tutte le professioni che hanno a che fare col cibo, è stato totalmente cancellato, reso invisibile. È troppo poco spendibile come content. Le facce di chi nel cibo ci lavora, a meno che non siano chef stellati col cerone, ospiti sotto le luci di Masterchef, non si vedono mai.

Poco più di un anno fa scoppiava il caso della StraBerry, la start up delle fragole a chilometro zero )alle porte di Milano e non nel cattivissimo meridione) che sfruttava lavoratori migranti con paghe da fame e vinceva ogni anno l’Oscar Green della Coldiretti. E c’è poi il caso controverso di Valentina Passalacqua i cui vini naturali super cool sono, forse, fatti a spese dei soliti ‘sans papiers’ che fuggono dalle guerre. Ma l’elenco potrebbe continuare.

Per ogni Stella Green dalla Michelin ci sono sempre almeno due “ragazzi” di colore assunti legalmente con un contratto di apprendistato part time che iniziano a pulire la sala con lo straccio alle nove di mattina e lo rifanno alle due di notte. Molti diranno: meglio che morire di fame nel deserto. Beh, forse.

Nelle periferie delle nostre città fortezze, fuori dai centri storici dove accanto alle Soho House fioriscono bistrot vegani, steak house con bistecche di bovini felici e pane green che recupera cultivar dimenticate, nascono solo fast food. È l’unico posto dove possono permettersi di mangiare, dopo turni di 16 ore, quelli che lavorano nei ristoranti green, a basso impatto, magari bevendo una birra comprata nel negozio del solito pachistano. Ma senza sedersi sulle panchine, altrimenti in nome del decoro, si rischia il daspo.

Forse era molto più facile per i giovani urbani cosmopoliti dire “je suis Charlie” che dire Je suis Renatino o ancora peggio “Soumaila Sacko“. Forse perché non ci piace pensare di essere noi stessi parte di un meccanismo, che troppo spesso umilia chi produce, in nome di una sostenibilità tutta bollini e foto green a favore di camera.

Non ci sarà mai nessuna vera sostenibilità fino a che non ricominceremo a pensare che dietro al cibo, dietro alle cose che ogni giorno ci nutrono, ci sono persone. Esseri umani che a volte hanno un progetto di vita, voglia di uscire, andare al cinema, fare sport, insomma di vivere. Non ci sarà mai nessuna sostenibilità che non passi attraverso condizioni di vita dignitose per chi lavora e non solo di quelle degli animali che possono loro sì pascolare liberi nel verde mentre tanti, troppi esseri umani sono condannati a vivere vite che di umano hanno ben poco. Buona sostenibilità a tutti.


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