Prima puzzava troppo, ora puzza troppo poco, il “vino naturale” è sempre sbagliato. C’è una sorta di prolungata dissonanza cognitiva tra il “vino naturale” e i gendarmi della qualità nostrani. Uno di questi è certamente Jacopo Cassater che, riprendendo le argomentazioni di Simon J. Wolf sul Morning Claret, ha di fatto confermato ancora una volta quanto provinciale e derivativo sia l’eno-dibattito sui “media” italiani.
Che il mondo del vino naturale sia meno vibrante e colorato rispetto a quelli degli anni zero, credo sia appunto, naturale. Che questo sia una cosa negativa è tutt’altro che pacifico, ma forse questo a chi di mestiere fa il gendarme della qualità sfugge un poco, ed è ovvio che sia così.
Tutti i movimenti rivoluzionari, nelle arti come nella politica, vedono dopo quattro lustri se non l’esaurirsi, almeno l’attenuarsi della loro carica eversiva. Se si escludono Tom Yorke e Miles Davis, nessuno riesce a restare interessante e sempre nuovo per vent’anni. Gli altri diventano Ligabue o Tiziano Ferro e, nei casi peggiori, Baglioni.
La terribile abitudine di catalogare e declinare il vino naturale secondo tassonomie organolettiche semplicistiche e semplificanti è una prassi che abbiamo imparato a conoscere non certo da oggi. Tuttavia il “vino naturale” rappresenta pur sempre una “via altra” e più divertente.
Se il movimento del vino naturale si è forse appiattito tra Pét–nat anonimi, macerati noiosi e rossi “glu glu” tanto appaganti quanto facili da dimenticare, almeno è riuscito ad avvicinare al vino un pubblico under 40 che nelle enoteche “convenzionali” aveva smesso di entrare almeno da due lustri. E il merito è proprio di quei wine bar e delle enoteche naturali che nell’articolo vengono tanto criticate.
Se da un lato le enoteche convenzionali sembrano sempre di più delle RSA dove la musica dixieland viene ancora diffusa dai lettori CD, entrare in una entoteca naturale aperta da persone che non hanno i tre livelli di Ais o un master in enologia a Bordeaux, è come entrare in un luogo in cui si potrebbe star bene o addirittura divertirsi.
Le enoteche naturali, aperte (come ripetono sempre i Gendarmi) da persone con poca o nulla preparazione ufficiale, hanno dato spazio a vitigni e a tecniche di vinificazione che dalla enoteche ufficiali erano quasi scomparse. Ormai è solo in questi posti aperti da dilettanti in cui si ha speranza di trovare a bicchiere un Pelaverga o un Pecorino.
Spesso dagli speaker Bluetooth escono playlist di musica incisa da persone viventi e vedono proposti alla mescita vitigni e vini che pescano al di fuori del dominio di quelli che mi piace chiamare vini plutocrati: Grandi Amaroni, Baroli Riserva e Champagne Blanc des Blancs millesimati.
Tra musica indie e jazz londinese, si possono assaggiare crèmant della Loira ad un prezzo ragionevole, ruspanti verdicchio, succosi cirò e sì, anche i vituperati Pet’Nat che forse non avranno la complessità da masterclass con le slide, ma che forse dopo una giornata di lavoro non sempre gratificante, o un litigio con la propria dolce metà, potrebbero essere semplicemente un modo per rilassarsi in compagnia senza pensare troppo.
Il vino naturale, prima che un movimento di rottura dal punto di vista organolettico e degustativo, è stato e continua ad essere un movimento che ha contribuito a fare entrare nel mondo del vino persone di età ed estrazione sociale diversa. Ha reso il vino più democratico, ecumenico e leggero.
Io continuo a preferire un’enoteca naturale in cui si possono vedere persone con le Converse e con cui flirtare, a luoghi con vini più “interessanti” dominati da portatori (sani?) di Hogan che bevono amaroni riserva discettando di sentori di frutta matura.
Il vero nemico del vino è la noia. È su questo che il vino naturale, pur nelle sue contraddizioni, continua a vincere e convincere. Quindi, al netto dei problemi, preferisco il mondo imperfetto ma più spontaneo del vino naturale, alla boria e alla noia delle riserve da mesterclass e dai loro alfieri, che continuano a fraintendere un vino. Per me un vino, prima che essere una categoria merceologica e organolettica, è (o cerca di essere) una visione del mondo diversa. A cominciare dall’agricoltura da cui proviene e dal mondo in cui vuole esistere.
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